“Non volevo vedere la morte, la violenza… Volevo vedere la speranza”. È questo uno degli aspetti che Massimo Sestini, autore della foto, vuole far passare nel documentario “Where are you?”, che National Geographic ha in programma di trasmettere il prossimo 20 giugno.
“Il documentario è una raccolta delle testimonianze che siamo riusciti a recuperare su chi su quella barca c’era ed è immortalato nella foto”. Quando è venuta l’idea di creare un documentario su quello che la fotografia necessariamente non riusciva a raccontare, tutti si sono trovati immediatamente d’accordo nell’iniziare i lavori, ma la ricerca è stata piena di difficoltà, come a suo tempo raccontato dal giornale TIME.
Trovare quei migranti che sono riusciti ad arrivare sani e salvi alla sponda nord del Mediterraneo, e che dopo due anni (la foto è del 2015)chissà come e dove stavano conducendo le proprie vite, “è stata una serie di piccoli miracoli. In un primo momento avevamo pensato fosse approdata a Lampedusa e abbiamo iniziato da lì, per poi ricominciare tutto daccapo quando abbiamo scoperto che ci eravamo sbagliati. Ma quando è iniziata la campagna “Where are you?”, e grazie all’aiuto di qualche influencer, siamo riusciti a fare massa sui social, e alla fine sono stati loro a venire da noi. E a quel punto è iniziato il lavoro di verifica, per vedere chi effettivamente era presente sul barcone e chi no”.
Il documentario infatti è stato pensato non tanto per mostrare come è nata la foto, quanto piuttosto per raccontare le storie di quelle donne e di quegli uomini che della foto sono i protagonisti.
Anche perché, dice sempre Sestini, non c’è nulla di troppo studiato dietro l’immagine: “Questa non è una foto preparata. Nel mio lavoro c’è sempre la necessità di installare cinque luci per fare lo scatto migliore alla personalità di turno. In questa foto, alcuni stanno guardando in su, verso di noi, altri non si sono accorti dell’elicottero, altri ancora si erano già assuefatti alla nostra presenza. Stavolta, al contrario di quanto spesso ho fatto in anni di lavoro, cercavo una foto autentica, senza ritocchi, che cogliesse l’attimo”.
Il tutto per raccontare dramma senza la drammatizzazione, la speculazione. Che però per qualunque fotografia è il pericolo che sempre si nasconde dietro l’angolo: “ovviamente la foto è stata strumentalizzata, sia da destra sia da sinistra. Addirittura un partito estremista finlandese ha incentrato un’intera campagna su questa fotografia. Ma questo è un pericolo per tutte le fotografie, ed il fotografo ha la responsabilità per quello che fotografa: è il fotografo, impostando l’immagine, a decidere che significato deve avere, il messaggio da veicolare”.
In un evento come il Festival internazionale del giornalismo, la portata della potenza delle immagini nella comunicazione non può non essere un tema importante. Ma non è su questo che si concentra il panel. Come per il documentario, al centro ci sono le storie, vere protagoniste del filmato: la storia di come è nato il documentario, e quelle dei migranti ritratti nella foto.
Due di queste testimonianze sono state mostrate durante l’incontro. La prima è quella di una ragazza siriana, ora residente in Germania:
“Ricordo la barca, era tutta blu a parte una striscia rossa tutt’intorno. Noi siriani eravamo vicini, mentre gli africani erano più indietro. Molti erano anche nella stiva. Ho scoperto la foto per caso, e quando mi sono riconosciuta mi sono sorpresa di essere in un’immagine così famosa sui social. E a quel punto sono andata dal mio insegnante e gli ho chiesto di stampare la foto, per farla vedere. Mi ha chiesto più volte “Sei tu? Ne sei sicura?”. Anche lui non poteva crederci! Del viaggio ho conservato una sciarpa, l’avevo comprata in Siria ma la tenevo anche quando ero in Liba, e durante la traversata. È ancora qui con me, mi ricorda del viaggio: è come nuova a parte delle macchie, di quando ci hanno buttato addosso l’ammoniaca…”
La seconda storia è quella di un ragazzo del Gambia. Racconta la sua esperienza in un ottimo italiano:
“La Libia è un posto pericoloso, posso dirlo perché ci sono stato, prima di salire su quel barcone. Lì ci sono gruppi di persone che quando vedono uno straniero iniziano a trattarlo male, ad insultarlo… oppure ti dicono “entra in macchina, abbiamo un lavoro per te a casa, poi ti paghiamo”, ma poi ti vendono ai trafficanti. È una cosa che succede spesso. Quello che mi manca di più di casa è mia mamma, e mio papà, mi ricordo di quando dormivo con loro, quando ero piccolo, a 7 o 8 anni”.
Alcuni si sono fatti vivi per raccontare la propria storia, ma non tutti: tante sono le testimonianze che resteranno nascoste. “Molti non si sono fatti vivi, ma è comprensibile: dopo quello che è successo mentre erano in Libia, e quello che hanno vissuto durante la traversata, non tutti hanno voglia di raccontare, di rivivere quello che hanno vissuto laggiù”.
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