internarional migrants day 18 dicembre

“Un mondo in movimento”: il 18 dicembre è la Giornata internazionale per i diritti dei migranti

Nel 1972, durante un viaggio clandestino verso la Francia, 28 migranti del Mali morirono nel tunnel del Monte Bianco, a causa dell’incidente che vide coinvolto il camion che li trasportava.

Non fu né il primo, né l’ultimo dei viaggi tragici dei migranti, economici e non, né in Europa né nel resto del mondo. Questo episodio diede inizio però alle contrattazioni che portarono alla Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie: un documento nato non per istituire diritti nuovi o particolari per i migranti economici, ma che partiva dall’assunto che chi lascia il proprio Paese per cercare un futuro migliore in un altro Paese è, in promo luogo, una persona, e in quanto tale soggetto a doveri e, soprattutto, beneficiario dei diritti riconosciuti a livello nazionale ed internazionale ai cittadini provenienti da Paesi terzi, inclusi i lavoratori migranti e i loro famigliari.

Questi diritti, riaffermati a partire da precedenti Convenzioni, sono tra gli altri: alla non discriminazione (non solo rispetto alla provenienza o all’etnia, ma anche riguardo sesso, religione, preferenze sessuali o opinioni politiche), di poter lasciare lo Stato di nascita o potervi rientrare a piacimento, di non essere oggetto di trattamenti inumani o degradanti, di pensiero e coscienza, alla privacy, di uguaglianza di fronte alla legge, che non vengano loro confiscati o distrutti i documenti, di non essere soggetti a espulsione, alle cure mediche, all’educazione, al rispetto del propria eredità culturale, a non essere messo in schiavitù.

La Convenzione venne firmata il 18 dicembre di 29 anni fa, nel 1990. Dal 2000, per l’ONU e in tutto il mondo questa giornata di metà dicembre è la Giornata internazionale per i diritti dei migranti.

Tuttavia, non solo il rispetto della Convenzione, ma addirittura la sua ratifica è tutt’altro che universale: buona parte degli Stati europei, inclusa l’Italia, hanno deciso di non aderire. E questo, nonostante sia ormai palese che il tessuto economico di buona parte del nostro continente si basa anche, in alcuni settori profusamente proprio sul lavoro degli immigrati, in alcuni casi addirittura sfociando nello sfruttamento vero e proprio, come nel caso del lavoro nei campi. Tacciando poi dello sfruttamento sessuale, piaga anche questa comune nelle città.

Eppure, negli ultimi anni si è potuto vedere come, per alcune parti della politica italiana ed europea, la colpa per le difficoltà economiche e sociali degli Stati siano state addossate proprio sui migranti, inclusi quelli economici: episodi di discriminazione, razzismo e xenofobia sono ormai all’ordine del giorno, dagli spazi virtuali a quelli reali, sintomi ulteriori di un generale imbarbarimento del discorso pubblico e della vita privata, che vede l’aumento di episodi di misoginia e discriminazione per l’orientamento sessuale.

Nel caso dell’immigrazione la giustificazione si cerca nel tentativo di contrastare il “sovvertimento del nostro sistema di valori” (evidentemente visto come migliore a prescindere), l’”invasione”, la “sostituzione etnica”. Fantasie, come abbiamo già avuto modo di notare in diversi articoli precedenti. La discriminazione, quindi, non sarebbe altro che una risposta ad un pericolo strisciante ed imminente: “loro” che minacciano “noi”, la “nostra” vita, la “nostra” cultura, la “nostra” stessa sopravvivenza.

Tutto questo in un momento in cui, proprio considerando la dimensione del fenomeno, molti Stati stanno puntando a cambiare le leggi riguardanti l’immigrazione. La preoccupazione, come molte associazioni e privati cittadini denunciano sia successo in Italia, è che siano leggi che ignorano i diritti di cui anche i migranti, in quanto umani, sono titolari.

I fatti, neanche a dirlo, raccontano una realtà ben diversa. Dei dati riguardanti l’Umbria e l’italia abbiamo già parlato precedentemente (vedete ad esempio i dati riportati dal rapporto IDOS); i numeri diffusi dall’International Migrant Stock, il documento del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali dell’ONU che tiene traccia dei movimenti migratori nel mondo raccontano una situazione che è ben lontana da quella dipinta da chi sfrutta il fenomeno migratorio per i suoi fini politici.

Per fare un breve excursus:

  • I migranti internazionali al 2019 sono 272 milioni: un’enormità in termini assoluti, che però rappresenta solo il 3,6% della popolazione mondiale, che è pure cresciuta di più in termini percentuali;
  • Non tutti i migranti arrivano in Europa, figuriamoci in Italia. Su dieci migranti, quattro si postano in Paesi in via di sviluppo (Pvs). Nel caso dei rifugiati politici, addirittura 8 su 10;
  • Per di più, tra questi quasi la metà proviene da Paesi sviluppati, e sono 14 milioni i cittadini di questa categoria di Paesi che si spostano in Pvs. Insomma, a meno che “devono tornare a casa loro!” non riguardi anche i nostri concittadini, lo slogan è evidentemente patetico;
  • Sui circa 6 milioni di stranieri presenti in Italia, 2.639.000 sono europei: parliamo di più di un terzo del totale;
  • Il flusso di lavoratori dal Sud al Nord del mondo comprende sempre di più lavoratori formati, il che a livello di capitale umano rappresenta una ricchezza per i Paesi sviluppati a spese di quelli meno avvantaggiati. Il rischio, a questo punto, è quello di un circolo vizioso creato dal depauperamento delle risorse umane, dopo quelle naturali ed energetiche.

Eppure, in Italia come in Europa, la chiusura delle frontiere sembra essere la panacea di tutti i mali. Il dibattito pubblico si è concentrato (prima dei problemi interni del governo passato e di quello in carica) su come rendere la vita il più possibile difficile a chi vuole venire in Europa non solo per sopravvivere, ma anche per lavorare e vivere una vita dignitosa. L’augurio è che ci sia una presa di posizione decisa non sull’immigrazione nel suo complesso ma sulla regolarizzazione degli immigrati lavoratori (in particolare ma non solo), ed una chiara assunzione di responsabilità sulla messa in sicurezza dei canali per arrivare in Italia (ad esempio tramite corridoi umanitari) e sul rispetto di tutte quelle Convenzioni sui diritti umani che, quelle sì, l’Italia ha ratificato ed è chiamata ad applicare.

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