Il progetto Freelife: l’Umbria contro la tratta

Il progetto Freelife

La storia ci insegna che la schiavitù in Occidente è una pratica abolita fin dall’Ottocento. Nel terzo millennio, nessuno si sognerebbe tornare a simili pratiche, ormai riconosciute come inumane.

Una nuova forma di schiavismo si è fatta strada nelle nostre città, più subdola perché nascosta e sottovalutata dai più, tanto da essere considerata quasi normale. La “tratta di esseri umani”, secondo la definizione dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni,

“comprende il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento”.

Parliamo in primo luogo di donne, ma anche di uomini, e spesso di minori, che vengono portati illegalmente in tutta Europa, Italia inclusa, dalla criminalità organizzata per alimentare le dinamiche dello sfruttamento lavorativo e sessuale, della schiavitù e dell’asservimento, per matrimoni combinati, per il mercato di organi.

Enti e associazioni combattono questa pratica criminale con interventi in strada, formazione per gli operatori e campagne di comunicazione, per poter dare una speranza a tutti quelli che sono direttamente coinvolti e sensibilizzare la cittadinanza.

In Umbria è attivo Freelife, progetto antitratta umbro ormai giunto alla terza edizione: ne abbiamo parlato con la dott.ssa Tasselli, responsabile della “Sezione Inclusione sociale, Contrasto alle Povertà e Anziani” della Regione Umbria (capofila del progetto), e con le associazioni partner che lavorano ogni giorno contro il fenomeno della tratta di esseri umani:

  • Arci Solidarietà: si occupa del segmento “emersione” del progetto, con interventi in strada e di contatto;
  • Borgorete: attiva nell’ambito della prima e seconda accoglienza, e responsabile del numero verde antitratta 800 290 290;
  • Fondazione Crispolti: si occupa di prima e seconda accoglienza, e segue “Decanter”, il servizio per rendere consapevoli della loro situazione di sfruttamento le ragazze che ancora non sanno se entrare o meno nel progetto.

Tutti i soggetti coinvolti hanno potuto accedere al progetto perché iscritti alla seconda sezione del Registro delle associazioni e degli enti che operano in favore degli immigrati, dedicata agli enti che svolgono programmi di assistenza e protezione sociale.

Come è nato il progetto Freelife?

Freelife è risultato di anni di lavoro sperimentale su tratta esseri umani che parte con Non si tratta e in seguito con Fuori dal labirinto. All’inizio la situazione a livello progettuale era complessa, a causa della durata semestrale di questi progetti. Poi nel 2016 il Dipartimento per le pari opportunità emana l’avviso per progetti contro la tratta, e la Regione decide di avere un ruolo principale: mentre per la maggior parte delle altre Regioni si presentano solo associazioni, l’Umbria ha deciso di presentare con le associazioni un suo progetto, Freelife appunto, arrivato secondo con il massimo del punteggio e dei finanziamenti.

Dopo i risultati del primo Freelife, abbiamo deciso di proseguire la nostra azione con Freelife 2, e infine con Freelife 3.

Quali sono stati i punti comuni ai progetti Freelife?

In tutti i progetti sono previste azioni per l’emersione, per il trattamento degli individui coinvolti, e molta formazione. Questo è un aspetto importante e voluto fortemente, perché se il contrasto al grave sfruttamento e alla tratta è materia che riguarda gli addetti ai lavori, molto esperti e fondamentali, non vuol dire che tutto debba ricadere solo sulle loro spalle.

Per questo abbiamo fatto formazioni allargate, per tutti gli attori coinvolti, dalle forze dell’ordine all’ospedale, dai comuni ai sindacati alle organizzazioni di categoria. Abbiamo iniziato già con Freelife 1 “azzerando” le nostre competenze, spogliandoci dei nostri preconcetti, per permetterci di mettere a fuoco il fenomeno a livello globale e nazionale, prima di passare all’ambito regionale.

Nella seconda parte della formazione un trainer ci ha trasmesso l’importanza di essere un gruppo che nelle nostre intenzioni doveva diventare un sistema anti tratta di livello regionale, per rendere Freelife e gli altri progetti antitratta sempre più fruibili.

Ad ora il sistema antitratta, come accennato, è ancora in divenire; nel frattempo però sono state messe individuate delle linee guida operative utili a dare vita ad un protocollo, con l’idea di firmarlo a giugno.

Altrettanto importanti sono state le attività di sensibilizzazione. Lottare contro la tratta è anche togliere un velo che copre gli occhi di tutti, e riconoscere per quello che è un fenomeno che sono riusciti a farci passare come normale. Combattere la tratta non si può fare solo negli uffici o con i soggetti che lavorano giorno e notte sul territorio, ma con l’apporto di tutti quanti a vario titolo. Soprattutto i cittadini devono avere visione più chiara del fenomeno, che colpisce molti soggetti diversi: dalla persona che entra in un ufficio, alla donna che fa una visita ginecologica, al ragazzo che vediamo ogni giorno davanti al supermercato, che ogni mattina viene portato là per fare accattonaggio, e che quindi è all’interno di un sistema di sfruttamento. Tutti dobbiamo avere consapevolezza di questo.

Quali sono stati gli elementi che hanno reso più complicata la riuscita del progetto? 

Uno dei punti critici è stato il dover creare dal nulla il sistema antitratta. Questo ha voluto dire confrontarsi, cosa che non è stata mai facile: la materia è difficile da trattare, e la situazione di essere “poco comodi” per via dell’assenza di percorso istituzionale già segnato ci ha portato ad essere un po’ pionieri, andando per tentativi e vedere cosa funziona e cosa no, riportando via via le complessità a noi che dobbiamo riportarle al linguaggio amministrativo.

In secondo luogo, il fatto che a diversi attori servono approcci differenti: alle associazioni serve snellezza nell’intervento, mentre alla Regione si richiede scrupolosità, perché poi nessuno venga a chiederci conto di qualcosa di non consentito, e magari invalidare tutto il lavoro svolto. Creare un sistema è difficile. Come deve configurarsi?

Queste difficoltà ci hanno portato a mettere in campo tutte le nostre risorse per arrivare ad un risultato di alto valore. Sappiamo oggi che stiamo creando un sistema che non c’era. Le associazioni lavorano tanto, tutti i giorni, acquisendo informazione e complessità: sono dei veri e propri ricettori sul territorio.

Quali sono gli elementi di innovatività del progetto?

In primo luogo gli interventi sull’accattonaggio: Freelife va avanti con progetti-intervento, con servizi di sportello per aiutare queste persone.

Senza dimenticare che l’accoglienza fa anche emersione: c’è la speranza che, lavorando, la persona si renda conto di essere una vittima di tratta. Questo è un elemento cardine in ogni tipo di intervento, e lo portiamo avanti da Freelife 1.

Quali sono state le pratiche che hanno facilitato l’inclusione sociale?

Per coloro che sono ancora dentro il progetto, in una prima fase ovviamente l’alfabetizzazione e l’accesso all’istruzione, poi l’accesso alla formazione e ai tirocini di lavoro. Nella fase successiva c’è poi la questione abitativa, ed infine il contratto di lavoro. Ma non solo questo: in realtà è un discorso che cambia da persona a persona. Ci sono attività per l’inclusione sociale che sono diverse dalla semplice formazione ma che aiutano la persona a ricostruire la propria identità e a stare meglio: laboratori espressivi, teatro, danza… All’inizio però c’è sempre l’alfabetizzazione, anche informatica, e i corsi occupazionali specifici, in modo che la persona possa uscire da questo percorso con un certificato spendibile in mano.

Inoltre abbiamo dedicato alle persone inserite nel sistema delle risorse per l’inclusione lavorativa. In concreto significa dare la possibilità di effettuare tirocini in azienda, con orari flessibili a seconda delle capacità dell’individuo di mantenere un orario di lavoro e di stare sul posto di lavoro.

Cosa vi aspettavate prima di iniziare Freelife, e come si è effettivamente sviluppata la vostra azione una volta che il progetto è stato avviato?

In realtà non ci sono stati grandi cambiamenti. In corso d’opera ci siamo resi conto che le relazioni con gli altri enti sono importanti. La rete va costruita e non solo usata: in sostanza abbiamo dovuto passare dal concetto di “avere” una rete ad “essere” una rete. Con Freelife 2 abbiamo dato continuità all’azione ricontattando le stesse persone. La difficoltà per i soggetti coinvolti in un progetto come questo è la discontinuità degli interlocutori: che essi siano sensibilizzati e informati è il fattore che può facilitare o bloccare una procedura. La presenza di un interlocutore dedicato aiuta.

Inoltre abbiamo avuto la possibilità di costruire un rapporto con le Commissioni territoriali rispetto al referral delle persone che si sospetta siano vittime di tratta. Abbiamo dovuto stabilire dei contatti e mantenerli stabili.

Rispetto ai primi tempi i progetti sul tema hanno potuto essere di più largo respiro, passando dai 6 mesi di Non si tratta ai 15 dei Freelife. Che impatto ha avuto questo cambiamento sulla vostra azione?

La nostra principale ambizione è di rendere le azioni antitratta un servizio; non essendo ancora arrivati a questo punto, la possibilità di lavorare su un arco temporale più lungo ha comunque dato modo alla Regione e agli enti coinvolti di dare continuità ad azioni e pratiche che altrimenti avrebbero dovuto poggiarsi su basi non strutturate, e quindi meno efficaci.

Tutti noi abbiamo lavorato per sentirci un solo soggetto, dato che la tematica e l’ambito di intervento sono di portata regionale. Questo passaggio ha incontrato resistenze: abbiamo iniziato da una visione territoriale dei progetti, per passare a una situazione in cui tutti i soggetti, per le proprie competenze, lavorano a livello regionale. Avere un orizzonte temporale di quindici mesi ha reso possibile lavorare anche su di noi e su come progettare l’intervento, per capire quale direzione prendere.


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