Photo credits: S.Verza
“Si dice identità ma non è altro che somiglianza” inizia così l’intervento di Francesco Remotti, antropologo e professore ordinario di antropologia culturale all’ Università di Torino. Il suo keynote speech, intitolato “Dall’identità alla somiglianza: individui o condividui?”, si è tenuto durante il Convegno “Identità nelle Scienze Sociali. Individui, gruppi e comunità” organizzato dai dottorandi e giovani ricercatori di Scienze Politiche di Perugia.
“Di sola identità si muore”, aggiunge Remotti, sottolineando come essa si strutturi imprescindibilmente dall’altro, avendo bisogno di una contrapposizione per definirsi. Nel 1996, usciva il suo libro “Contro l’identità” dove definiva l’identità come “irrinunciabile”. Nel 2010, con l’uscita dell’ “L’ossessione identitaria”, Remotti ha cambiato idea ed è ora pronto ad affermare che “dell’identità…si può fare a meno, per far posto a un mondo di “somiglianze”.
La sua prospettiva innovativa lascia spazio a domande e riflessioni, sulle somiglianze nella società di oggi, sempre più multiculturale. Per capire meglio la sua proposta, lo abbiamo raggiunto dopo l’intervento con qualche domanda.
L’alterità mette in discussione l’identità. Cosa succede quando due identità si incontrano?
Quando due gruppi che rivendicano la propria identità si incontrano, ci sono varie possibilità:
Io ho proposto la tipologia della coesistenza: sia io sia Gustavo Zagrebelski, utilizziamo la distinzione tra coesistenza e convivenza. Distinzione presto detta: la prima basata sulla separazione – tu stai lì e io sono qui- , stabiliamo un minimo di relazioni, ma il principio fondamentale è quello della separazione. Per mantenere questa separazione e per far sì che la situazione si conservi, i gruppi possono adottare una politica di tolleranza, condizione che garantisce la coesistenza. La tolleranza però è la “percezione di un fastidio”, una reazione a qualcosa che disturba. Diceva Goethe, “tollerare è come insultare”. Proviamo per un attimo a metterci nella prospettiva di chi è tollerato da un altro gruppo. Non è piacevole. In più la tolleranza ha la caratteristica di essere a termine, dopo un po’ finisce.
L’altra soluzione è il respingimento: ci diamo troppo fastidio, ci respingiamo. Il nazismo ad esempio era nato come respingimento, l’idea della Germania, insieme a Francia e Inghilterra l’idea era quella di spostare gli Ebrei fisicamente in Madagascar. Il respingimento è un far fuori, spazialmente. Se esso non funziona, l’ultima possibilità è l’annientamento. Un far fuori esistenziale.
La prospettiva positiva è invece la convivenza. Rinunciare all’identità e passare a un regime di somiglianze. Solo le somiglianze danno origine alle convivenze. Ad esempio, nei casi che ho studiato nell’Africa precoloniale, le differenze vengono mantenute, non vengono assorbite. Esse vengono valorizzate. Ogni gruppo aveva le sue competenze specifiche: c’erano, ad esempio, gli specialisti dei funerali funebri (come approfondito dagli studi di Nadel, a Kutigi in Nigeria negli anni Trenta) e li facevano per tutta la comunità. In questa prospettiva, le differenze acquisiscono un valore nella società. Oggi, bisogna instaurare una collaborazione fra piano dal basso e un piano alto, politico. La spinta “dal basso” dà il senso della fattibilità. Un Ministero dell’Interno che promuove il “respingimento” non è al passo con i tempi. Bisognerebbe avere uno sguardo sul futuro…
E cosa c’è nel futuro?
I giovani vengono a mancare demograficamente, chi è che mantiene la società nel suo insieme? Anche se riuscissero a trovare un lavoro, rimarrebbero comunque pochi. Bisognerebbe dire ai migranti: venite con diritti e doveri, imparate la lingua, vi insegniamo la lingua. Invece che parlare di diverse identità, bisognerebbe spostare il discorso sul piano dei diritti. Questi gruppi cosa cercano, quali diritti vogliono vedersi riconosciuti?
Una società fondata sulle somiglianze è possibile?
Porto un esempio, esiste uno studio di Robert Sommer, sociologo tedesco, dedicato all’attrazione che le SS provavano per le donne ebree. Alla fine, il disprezzo è sempre ambivalente. In una prospettiva sociale, io continuerei a parlare di convivenza. Esistono tanti stili diversi di convivenze, a differenza della coesistenza è un coinvolgimento degli altri gruppi in progetti di vita, politici. Viviamo insieme su questi territori dunque dobbiamo decidere insieme cosa è meglio fare.
Per approfondire la visione del professor Remotti, alleghiamo qui il saggio in cui affronta il tema della coesistenza/convivenza. Buona lettura!
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