Il Festival Internazionale del Giornalismo è una delle più importanti e conosciute manifestazioni riguardanti il mondo dell’informazione. L’edizione 2019 a detta degli organizzatori è stata contrassegnata da un particolare successo di pubblico, più giovane e con molti stranieri.
Vista l’attenzione riservata negli ultimi tempi dalla politica e dal giornalismo alla “questione migranti” e al mondo di argomenti a questa collegati, molti panel si sono occupati del ruolo dell’informazione nella narrazione del fenomeno, e come abbia influenzato il comune sentire verso questo tema, in ossequio a valutazioni propagandistiche o di semplice tiratura. O di visualizzazioni, se si parla di web e social.
Ma cosa abbiamo imparato da questa cinque giorni di panel? Cerchiamo di fare un po’ di ordine.
Se ve la foste persa, trovate qui la prima parte.
Cosa succede in Europa

La testimonianza di Maria Gianniti: “Nella mia esperienza ho incontrato anche chi mi ha detto di essere grato al trafficante che l’ha portato in Europa. Perché? Il problema sta nelle misure restrittive nelle politiche dei visti seguite dai governi occidentali: se prima in Africa spostarsi in uno dei Paesi limitrofi era un’opzione vantaggiosa e relativamente poco rischiosa, ora spesso non lo è più. L’Europa a quel punto diventa l’unica alternativa. Ma se arrivare in Europa legalmente diventa così difficile, come potrebbero comportarsi?”
Caso esemplare di questo drastico cambiamento è quello libico, diventato improvvisamente un posto estremamente pericoloso per un migrante. Per Pamela Kerpius, giornalista freelance, nonostante quanto raccontato dalla narrazione mainstream, “spesso l’Italia non è la meta che vogliono raggiungere; addirittura ci sono casi in cui si tratta di persone che volevano spostarsi in un’altra parte dell’Africa, ma sono stati convolti [ndr. leggi: “rapiti”] nella tratta di esseri umani, e una volta in Libia hanno visto presentarsi due sole opzioni: salpare o morire”.
Può sembrare un’esagerazione, ma non lo è. Sono numerosi ormai i report delle ONG che denunciano le vessazioni a cui sono sottoposti gli “ospiti” dei “centri di accoglienza” libici. E dimostrano che la Libia è tutto fuorché un “porto sicuro” dove persone bisognose di aiuto in mare dovrebbero essere riportate dalle stesse ONG (e non dagli Stati, che violerebbero i trattati internazionali).
Tra l’altro, questi documenti riguardano per lo più i 19 centri ufficiali, in casi particolari ancora visitabili dalle organizzazioni non governative: accanto a questi ce ne sono altri, non ufficiali, gestite da milizie che, come la mafia italiana, al braccio armato uniscono infiltrazioni nella guardia costiera libica, nelle amministrazioni, nel governo in Libia. Chi tratta in esseri umani guadagna due volte: oltre che dai pagamenti e dalle estorsioni, anche appropriandosi dei fondi destinati a fermare i traffici. Se contiamo poi quelli che nonostante tutto vengono riportati, i modi per fare soldi sulle spalle dei migranti diventano tre.
Nonostante l’interessamento della società civile e delle organizzazioni internazionali, tuttavia, la verità rimane sullo sfondo. La politica e i media sono impegnati in quella che ancora Agus Morales definisce una vera e propria “operazione cosmetica del linguaggio: le prigioni libiche sono diventate centri di accoglienza, anche se chi vi arriva senza documenti è destinato a rimanervi sine die”. Il tutto ad uso e consumo dell’opinione pubblica occidentale, e permetterle di chiudere gli occhi sull’intera situazione.
Narrazioni parziali e narrazioni faziose: nei media…

A detta di molti, la nostra è l’epoca più pacifica nella storia dell’umanità. Questo però non vuol dire che questa sia un’era di pace, tantomeno di benessere a livello mondiale.
Semplicemente, di queste crisi i media non parlano, scomparendo di conseguenza dai radar del pubblico occidentale. Oppure, quando ne parlano, è spesso in modo sensazionalistico, per raccontare dettagli tragici e “appetibili” a livello giornalistico; ma l’informazione è parziale, non attenta al quadro generale, e in definitiva estemporanea.
“E nei media italiani” rincara la dose Jacopo Ottaviani (chief data officer per Code for Africa) “a questo si accompagnano una scarsa attenzione verso il quadro generale e una diffusa incapacità di leggere i dati e le notizie acriticamente”.
Quando si parla “quadro generale” non ci si riferisce semplicemente ad un mucchio di date e di dati, feticcio per storici e analisti. Una narrazione il più completa possibile di un fenomeno altro non fa che andare ad indagare tra le cause profonde del fenomeno stesso, in modo da comprenderlo nella sua complessità.
Quello a cui si assiste in Occidente è al contrario il proverbiale cane che si morde la coda: se i media non si occupano di un fenomeno complesso, un pubblico già poco informato rimane all’oscuro di quanto avviene realmente nel mondo, e si limiterà a far sentire la propria indignazione di fronte a episodi truculenti; di questi episodi si parlerà, per usare un termine televisivo “faranno share”, e sarà quel tipo di contenuto ad apparire sempre più spesso nelle narrazioni dei media. La cattiva informazione alimenta l’ignoranza, che alimenta la cattiva informazione.
La verità nella sua interezza rimane così sullo sfondo. E se la verità manca, necessariamente qualcos’altro cercherà di prendere il suo posto.

Secondo Joan Donovan (direttrice del TSCRP Shorenstein Center, un centro studi che si occupa anche del rapporto tra democrazia e informazione): “Americani ed europei sentono dire incessantemente che i migranti devono essere bloccati perché terroristi. L’immigrazione diventa un argomento polarizzante, e lascia campo aperto a quei gruppi che si rifanno all’idea della supremazia dell’uomo bianco e denunciano il complotto di sostituzione etnica che i bianchi starebbero subendo”.
Dall’altra parte dello spettro della cattiva informazione troviamo invece la pratica del limitarsi a dare in pasto ai lettori pochi, spesso tragici, episodi, senza che ad essi segua un momento di analisi.
“I migranti sono descritti solo come disperati”, è la conclusione di Gianniti, “ma è una narrazione solo parziale. Partono a causa della guerra, delle catastrofi naturali, delle crisi economiche… ma soprattutto per esercitare il sacrosanto diritto ad avere una vita diversa”.
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