Isabel è nata a Caracas, da padre italiano. È italiana – da vent’anni ormai – per scelta, così come suo padre, molti anni fa, ha scelto di diventare cittadino venezuelano. Le loro storie di emigrazione, per quanto diverse per contesto di provenienza, si sovrappongono nel racconto del vissuto di Isabel, quasi fossero una lo specchio dell’altra.
Isabel è venuta in Italia per conoscere il mondo di suo padre, le sue radici. In Venezuela si è laureata in informatica, a Terni si occupa di amministrazione condominiale. Il suo lavoro le piace, le piace soprattutto il contatto con le persone, a prescindere dalle loro culture di provenienza.
Tuo padre ha lasciato l’Italia per vivere in Venezuela e tu hai fatto il contrario. Come mai?
Io ho scelto di venire qui, mio padre invece ha lasciato l’Italia quando aveva 14 anni, in un periodo di difficoltà economica per questo paese, ed è emigrato in Venezuela con la sua famiglia. Nonostante la sua famiglia sia rientrata dopo un po’ di tempo, lui è rimasto in Venezuela perché essendosi innamorato di mia madre, una locale, la sua unione non era “ben vista” dalla sua famiglia di origine.
Purtroppo questo tipo di discriminazioni esistono ancora, esistono tra gli stessi italiani, tra nord e sud, immaginiamo con persone di altri paesi. Io sono orgogliosissima della mia storia e grata che Dio abbia permesso a mio padre e a mia madre di unirsi. Porto questo sangue misto con molto orgoglio, e sono contenta che le mie figlie possano portare in se stesse l’esperienza dell’unione di questi due paesi.
L’Italia è il tuo paese di origine, come ti sei trovata qui? Ti sei sentita a casa?
Anche con la cittadinanza italiana, che ho ottenuto in quanto figlia di un italiano, mi sentivo comunque straniera, non era il mio paese di nascita. Adesso sì, lo sento come mio paese, Italia e Venezuela fanno tutti e due parte di me. Ma all’inizio ho subito alcuni episodi spiacevoli.
Appena arrivata ho trovato lavoro nel mio settore, l’informatica, lavoravo con le banche e giravo spesso l’Italia. Mi è capitato di frequente che nelle stazioni o negli aeroporti mi si facevano commenti offensivi o avances solo per la mia provenienze straniera. È stato molto difficile e credo sia il segno di mancanza di cultura. In certe situazioni ho anche dovuto chiamare i carabinieri. Poi, crescendo, sono diventata più forte e mi sono detta “Isabel, tu sai chi sei, perciò lascia perdere e vivi”. Però dispiace. Del resto anche molte donne italiane vivono queste situazioni.
Per il resto, mi sono sentita accolta qui perché avevo già tanti amici italiani.
Prima di trasferirmi a Terni, vivevo a Roma. In una città piccola come questa, è più facile vedere o percepire comportamenti discriminatori ma la situazione sta migliorando, grazie anche ad associazioni che organizzano iniziative e supportano le persone straniere che non sanno ancora come muoversi nella società.
Invece parliamo del Venezuela, un paese che da sempre ha dovuto gestire flussi migratori provenienti da altri paesi del mondo.
Il Venezuela è un paese molto accogliente con gli stranieri. Quello dell’accoglienza è un discorso che riguarda i rapporti umani. Si dice che i sudamericani siano persone molto aperte. Non è che gli europei non lo siano, perché ho trovato una mentalità aperta anche in Europa. Però è una questione di cultura. Noi ci godiamo di più la giornata.
Ora, purtroppo, il Venezuela sta attraversando una situazione molto, molto critica. È stato un anno difficilissimo. I venezuelani vogliono continuare a combattere per i propri diritti e per il tipo di vita che potremmo avere. Siamo un paese così ricco, non è possibile che la politica lo distrugga così. Ci sono tanti giovani che ogni giorno combattono nelle strade, non hanno più paura di niente, pensano sia meglio perdere la vita lottando per i propri diritti.
A mio padre ho chiesto di raggiungermi qui, ma mi ha detto di no, “io ormai sono venezuelano e se devo morire, muoio qua”. Da immigrato, è stato molto contento dell’accoglienza che ha trovato in Venezuela,.
Cosa ti manca del tuo paese?
Mi manca la tendenza a vivere la vita in maniera un po’ più rilassata. Vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, perché nessuno ha la bacchetta magica per capire cosa succederà nel nostro futuro, anche immediato. E sorridere di più. È una cosa che mi ha insegnato mia madre e che io insegno alle mie figlie: ridere di più, condividere di più, aiutare di più. È umano e non costa niente. Bisogna dare di più per avere ancora di più.
Hai avuto difficoltà con la lingua italiana?
L’italiano l’ho imparato da sola, vivendo qui. Mi sono messa lì e mi sono detta: o lo impari o lo impari.
C’è, invece, una parola, modo di dire nella tua lingua che ti piacerebbe insegnare ai tuoi concittadini?
C’è una parola che noi a Caracas usiamo molto: chévere. È un modo di dire che si può definire dialettale, perché non fa parte del castigliano che è la nostra lingua madre. La usiamo per chiudere un discorso. Come dire “sì, va bene”. Questa parola mi piace molto. In italiano si potrebbe tradurre con “Ok! facciamolo! Va bene!”. Chévere, chévere, chévere! Dà molta carica positiva.
Sei cittadina di due paesi molto diversi. Hai mai sentito il bisogno di trovare qualcosa che ne accomuni le culture?
Io penso che l’essere umano, da qualsiasi parte del mondo provenga, è accomunato agli altri dalla sua stessa natura. Ci accomuna il fatto di avere un corpo, uno spirito, un’anima, che ci rappresenta ovunque, a prescindere dalla religione o dall’idioma (lingua, ndr) che si parla. Anche se non conosciamo la lingua di un posto, abbiamo un corpo e con il corpo, con le mani, possiamo comunicare e dialogare.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.