Martedì 10 settembre siamo stati a Montemorcino all’incontro “Dialoghi sul futuro: inclusione e cooperazione internazionale a tutte le latitudini”, organizzato al Centro Mater Gratiae da Tamat ONG, Fondazione Ismu e Arcidiocesi di Perugia. È stata l’occasione di parlare di buone pratiche, comunicazione, inclusione e integrazione, e come applicare modelli e progetti di successo in Africa anche al contesto urbano italiano, con Perugia come primo luogo di sperimentazione.

Impossibile non iniziare dalle parole del cardinale Gualtiero Bassetti, tra i primi a prendere parola all’incontro: “Diceva Isaia che i deserti fioriranno. Con la cooperazione abbiamo la possibilità di far fiorire i deserti, inclusi quelli dell’anima: perché le distanze maggiori sono quelle tra le teste e i cuori”.
Una distanza molto doppiamente sentita: se inclusione e accoglienza “sono le vere sfide del nostro tempo”, dice Carlo Cerati, direttore dell’ufficio per la pastorale dei problemi sociali, del lavoro e per la custodia del creato dell’Arcidiocesi Perugia, non si può nascondere che sono argomenti difficili da affrontare, anche da chi di questa sfida dovrebbe farsi maggiormente carico, ovvero la classe politica: lungi dall’informare i cittadini, le discussioni politiche non fanno che passare “dall’estremizzazione del fenomeno migratorio alla sua banalizzazione”, in un malcostume che coinvolge trasversalmente l’intera classe politica.
Come abbiamo avuto modo di notare più volte negli ultimi anni, e come abbiamo riflettuto più volte anche qui su Umbria Integra, questa tendenza è legata a doppio filo alla comunicazione, o meglio alla cattiva comunicazione e alla propaganda per la mera ricerca del consenso, che tenta di far credere che ci sia in atto un’invasione, da fermare con qualsiasi mezzo, anche i più disumani.
Che non si viva ai tempi dei Goti o degli Unni lo ricorda Piero Sunzini, direttore generale di Tamat: “le migrazioni in Africa sono un fenomeno strutturale, ma l’80% dei migranti africani rimane nel continente”. Quello che conta è infatti semplicemente lasciare il proprio Paese per cercare fortuna altrove, e per molti più che una scelta è una questione di necessità.
Sono gli stessi emigrati a spiegarlo. “Durante il progetto AwArtMali, in cui Tamat ha puntato a sensibilizzare i locali sugli aspetti negativi dell’emigrazione dal Mali, dalle interviste ai maliani di ritorno che non sono riusciti ad arrivare in Europa è emerso un elemento comune: l’agricoltura non permette loro più di vivere, a causa della siccità, di un aumento di popolazione che porta come conseguenza uno sfruttamento sempre maggiore di terreni non abbastanza fertili, o per mancanza di fondi per procurarsi mezzi di produzione propri, come sementi e macchinari”. E anche quando questi vengono ottenuti, si vive ad un livello di semplice sussistenza per poter restituire i prestiti, e in condizioni precarie: la guerra, la siccità, il meteo avverso possono ridurre ulteriormente le possibilità degli agricoltori, costringendoli spesso ad alienare le proprie terre e diventare braccianti, o, appunto, ad emigrare. “Tamat prende atto degli input del territorio e cerca i modi migliori per ottenere output all’altezza attraverso i suoi progetti, e la richiesta che viene dai locali è di dare loro acqua, sementi più produttive, razze di animali più produttive, ed assistenza nell’organizzazione dei processi.”
Professionisti e conoscenze tecniche, a dispetto di quanto si creda, non mancano in Africa, e neanche tra gli africani che tentano di raggiungere l’Europa. Eppure, è più comodo rifarsi alle narrazioni che vedono in tutto ciò che viene dal sud del Mediterraneo solo degrado, violenza, superstizione, o al contrario la semplice disperazione. Un problema, sempre, di malacomunicazione.
Tra i sostenitori di questa tesi è la Fondazione ISMU, presente a “Dialoghi sul futuro” nella persona del suo segretario generale, il dott. Vincenzo Cesareo: “in Italia la cattiva informazione ha influito ad un pesante divario tra percezione e realtà, il più ampio tra i Paesi europei, anche a causa della propaganda anti-immigrati, oltre che, banalmente, della maggiore visibilità nelle nostre città dei richiedenti asilo non occidentali, specie se dell’altra sponda del Mediterraneo. Se la distinzione classica riguarda hard power e soft power, si assiste al crescente ruolo dello sharp power della propaganda: un potere destinato a distruggere le narrative altrui grazie alla propria narrazione della realtà, fondata su informazioni false e manipolate”.

Il rischio è che questa visione distorta non faccia che aumentare paura ed insicurezza, se la narrazione si concentra sull’”invasione”; oppure, che il discorso scada nella (vuota) retorica e nel buonismo, se si guarda solo agli aspetti positivi. Abbiamo avuto molti esempi di entrambi gli approcci: se i paladini del primo puntano alla demonizzazione del fenomeno, mentre il secondo non fa altro che minimizzare gli aspetti negativi, entrambi si macchiano della colpa di mettere l’agenda politica al di sopra delle evidenze che la realtà ci propone.
Il parere di chi scrive è che la seconda via sia tutto sommato il male minore, ma non si può negare che la riflessione dell’ISMU non colga nel segno. Questo non sorprende se si vanno a vedere quali sono i capisaldi delle ricerche della Fondazione, ricordati dallo stesso Cesareo: l’unicità della persona, e il rispetto come mutuo riconoscimento tra persone con pari dignità; il ruolo chiave dei diritti umani e dei principi democratici, con il pesante ma necessario bagaglio di diritti e doveri che portano con sé, tanto per gli italiani quanto per i migranti; la necessità di un ruolo maggiore dell’UE nella gestione di un fenomeno migratorio fuori dalla portata dell’intervento del singolo Stato; e l’importanza di seguire un approccio interculturale quando si parla di inclusione, evitando di cancellare la particolarità culturali del singolo gruppo (“assimilazionismo”, modello da decenni in crisi in Francia) o, all’opposto, di considerare la società solo come mera somma dei di versi gruppi culturali (“multiculturalismo radicale”, che sta dando problemi nel Regno Unito).
La sintesi? “L’interculturalismo è l’approccio più efficace: contatto e dialogo sono al centro dell’azione, riducendo il peso dei pregiudizi e privilegiando ciò che accomuna. L’integrazione riguarda quindi tutti i cittadini, e non solo gli immigrati, perché siamo tutti chiamati all’ascolto e alla conoscenza con l’altro: è bidirezionale, è obiettivo oltre che processo”.
Ecco, l’integrazione come obiettivo; ma come si riconduce l’azione di Tamat, specializzata nella cooperazione nel settore agricolo in Africa, all’integrazione degli stranieri a Perugia?
A sentire Sunzini, è la risposta è semplice, quasi banale: “i beneficiari dei nostri progetti sono i poveri, che vedono nell’emigrazione una porta d’uscita dalla loro situazione. Solitamente sono i poveri in Africa, ma cosa possiamo fare quando ce li abbiamo a casa? Abbiamo deciso di “importare” i modelli positivi che abbiamo utilizzato nei programmi in Africa, e abbiamo privilegiato un intreccio tra coltura e cultura”.
Ed è così che dal progetto Rasad, che ha visto 5 volontari della diaspora burkinabè rientrare in Burkina Faso per dedicarsi all’agricoltura sostenibile, sono nate l’associazione L’Orto di Lambè e ColtiviAmo l’Integrazione.
Spiega Domenico Lizzi, project manager di Tamat coinvolto nei due progetti: “abbiamo organizzato diversi laboratori formativi, e da uno di questi è nato L’Orto di Lambè, un’associazione gestita da migranti all’insegna della dignità, che appunto in lingua mandinga si dice lambé. Per il progetto ColtiviAmo non abbiamo deciso noi cosa coltivare ma abbiamo chiesto ai ragazzi cosa mancava loro della loro terra, ed è da queste proposte che abbiamo iniziato a lavorare. Abbiamo per esempio coltivato l’ocra, usata in tantissimi piatti dell’Africa sub-Sahariana”.

Un vero e proprio azzardo, visto che la pianta è abituata a un clima molto diverso da quello perugino, ma che ha dato i suoi frutti, in senso sia figurato che letterale: “dall’ocra prodotta abbiamo sviluppato 3 diverse ricette, in collaborazione con esperti locali, che hanno avuto molto successo nei mercatini in cui l’abbiamo vendute. È stato un premio importante per il team di lavoro e soprattutto per i ragazzi, che hanno lavorato per ottenere il prodotto e l’hanno presentato”. Come Omar, mediatore culturale e tra i volontari del progetto, che ha detto che l’associazione è nata dall’idea “insegnare la coltivazione dell’ocra agli italiani”; o Christabel: “ho capito che se voglio fare qualcosa, posso farla”.
“Il punto di forza del progetto”, continua Lizzi, “è il suo grande potenziale, anche e soprattutto a livello lavorativo”. Un potenziale abbastanza grande da convincere Tamat a riproporlo in altre città, come Ragusa e Milano. Alla fine dell’incontro siamo andati a vedere gli orti nati con ColtiviAmo l’Integrazione: pensare che tutto questo è partito da una collina spoglia e inutilizzata fa capire meglio di qualunque altra cosa quanto sia giustificato l’entusiasmo di chi ci ha lavorato.
A proposito di orti ed integrazione, Tamat non è l’unica associazione presente all’incontro ad aver pensato che gli uni possono aiutare l’altra. Della stessa idea anche il Serafico di Assisi, “un laboratorio collettivo di cittadinanza, non solo un centro sanitario”, secondo le parole della direttrice, la dottoressa Francesca di Maolo. “Superare i propri limiti attraverso i talenti personali, con lo sport, o per esempio lavorando in un orto, è necessario per avere una vita piena in comunità: penso a Ciprian, cieco e vincitore di tutti i campionati giovanili di nuoto per disabili, o ai bambini muti che si esprimono attraverso l’arte”.
La disabilità è solo in apparenza distante dai temi discussi all’incontro: “ogni percorso di cura della disabilità è anche un percorso di inclusione; anche quando si parla di disabilità non si può non parlare delle difficoltà riscontrate nel sistema democratico. La cultura imperante è quella del risparmio: se non si può guarire, non si investe. Invece, abbiamo il dovere di dare una vita piena e inclusa nella collettività, perché non si diventa completi da soli”.
Come per gli immigrati così come per i disabili, la cruda verità è che la diversità fa paura; e questo nonostante il fatto che, come afferma giustamente di Maolo, “così come l’inclusione, anche la cura porta allo sviluppo nella comunità. Sono vie di sviluppo a tutto tondo, se e quando la collettività riesce a comprenderlo”.
Dicevamo all’inizio della distanza tra testa e cuore, che porta a mettere da parte ciò che non è facilmente riconoscibile come un individuo di pari dignità e relegarlo alla categoria dell’“altro-da-sé”. Un discorso che vale tanto per gli stranieri quanto per i nostri concittadini che invece hanno più bisogno, entrambi con la necessità di essere coinvolti nella vita della comunità ma troppo spesso messi da parte. Un problema di comunicazione, dicevamo più sopra, che però a ben vedere si poggia su un ben più pericoloso problema culturale e sociale. Per questo, chi si ribella a questo stato di cose sente sempre più pressante di mantenere il contatto con la propria umanità, e con quindi con chi dalla società rischia di essere escluso. “Accoglienza e stare accanto sono necessità urgenti della nostra società attuale: per questo, dobbiamo continuare a credere nell’inclusione e nell’accoglienza”.
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