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Il silenzio degli spari

Un articolo dal nostro amico Guy, pubblicato la prima volta nel 2016 dalla rivista “L’altrapagina”. Il pezzo è dedicato a suo zio, Afri Célestin, che gli ha permesso di venire in Italia e l’ha aiutato a superare questo trauma.

 

Il buio del mezzogiorno a casa era frequente da un po’. Eravamo ormai abituati a stare in casa prima delle ore 10 di mattina.

Ma quel giorno era particolare. Già alle 9 di mattina tutto era buio, il silenzio era entrato nelle case della città quindi anche nella nostra.

Mia madre, i miei due fratelli di 4 e 10 anni, la nonna, due amici di famiglia ed io eravamo chiusi dentro il bagno, porte chiuse e luci spente.

Sapevamo già la prima regola in situazione di questo genere: silenzio totale!

Nel bagno, il silenzio era “re” e ciò ci permetteva di sentire abbastanza bene ogni rumore che veniva da fuori.

Piano piano sentivamo che si avvicinavano e la loro presenza rinforzava il silenzio dentro la casa e il bagno oscuro.

Erano rumori conosciuti, rumori che da ben dieci giorni facevano parte del nostro quotidiano. Quel giorno, però, erano in anticipo, forse avevano previsto di finire presto ed andare in un altro posto.

Di solito, durava poco, circa due o tre ore di viaggio per l’inferno poi si tornava sulla terra con i soliti problemi quotidiani. Ma eravamo già alla quinta ora e non si poteva indovinare la fine.

Eravamo stanchi: i bambini non ne potevano più, pronti a rompere la regola del silenzio. Alla nonna facevano male le gambe e la fame era condivisa da tutti. L’aria cominciava a mancare dentro il bagno, non si poteva più respirare e la situazione stava diventando insopportabile. Avevamo una scelta difficile da fare, una scelta tra rimanere chiusi dentro il bagno, cioè soffocare e morirne, o aprire la porta del bagno rischiando di prendere un proiettile “caldissimo” capace di causare la morte.

La seconda alternativa fu quella scelta, quindi aprii leggermente la porta lasciando entrare l’aria, ma dopo 2 minuti, sentimmo una forte detonazione, di sicuro un colpo di mortaio.

Allora chiusi lentamente la porta e il calvario poteva di nuovo ricominciare.

Ci siamo dati la mano per riconfortarci nel buio e improvvisamente sentimmo una voce:

Uscite! E’ finito, sono andati via!

Era una voce conosciuta, quella di un vicino abbastanza eccentrico. Si sentiva poi la gente del quartiere aprire le porte e sussurrare. La vita poteva riprendere il suo corso, una vita che ogni giorno “flirta” con la morte, ma noi eravamo abituati.

Vivere la propria vita come se fosse l’ultimo giorno era diventato il nostro motto, ma con banche, mercati, negozi, ospedali chiusi, il nostro “ultimo” giorno sulla terra somigliava proprio all’inferno dell’inferno.

Fuori, la gente parlava di questo giorno, della durata anormale delle ostilità. Con il sorriso, ciascuno di noi cercava di raccontare la propria disavventura, prendendo in giro i propri familiari, quelli che avevano un comportamento insolito.

Ad esempio il ragazzo eccentrico raccontava che, prima della sparatoria, lui era dentro lo stanzino da bagno a fare i suoi bisogni. Quando egli sentì i primi spari, aprì la porta e andò nel loro riparo però puzzava perché non aveva avuto il tempo di pulirsi, quindi per ore, la sua famiglia ha dovuto respirare un odore nauseabondo. Dopo il colpo di mortaio, la sua famiglia gli ha chiesto di andare a vedere se le stradine erano libere per respirare un po’ d’aria fresca.

La gente rideva di questa situazione e allo stesso momento lo ringraziava, dicendo che è grazie alla sua puzza che i combattenti erano fuggiti! Una presa in giro che ci faceva dimenticare una situazione di terrore. Da lontano, si vedevano dei corpi per terra, altri in piedi che bruciavano. L’odore fuori era come sempre, un odore di morte e di desolazione.

Delle voci circolavano dicendo che i combattenti avevano bisogno di soldati e che loro dovevano tornare per reclutare i giovani ragazzi in età di combattimento. Intossicazione o verità, nessuno lo poteva dire. Mia madre mi disse di andare via perché temeva per me. Un signore, il vicino nostro aveva deciso di fare partire i suoi figli nel suo villaggio e fece la proposta a mia madre di portarmi con lui.

Non lo volevo, non volevo lasciare mia madre e i miei fratellini che già piangevano vedendo e capendo il rischio che stavo per affrontare. Una volta ancora, dovevo scegliere tra partire rischiando di essere ucciso o rimanere e forse essere arruolato di forza per combattere.

La mia scelta era difficile, ma mia madre mi convinse con le lacrime del suo “cuore” e decisi quindi di partire verso un villaggio che non conoscevo.

Lasciare la propria famiglia per andare in viaggio è una situazione difficile, ma lasciare la propria famiglia per un viaggio incerto in una situazione così drammatica è insostenibile. Volevo abbracciare mia madre una volta ancora, prenderla tra le braccia e dirle quanto le voglio bene. Camminando con centinaia di giovani che fuggivano, poi mi misi a correre e tornai a casa. Mia madre piangeva e quando mi vide si mise a piangere ancora di più, mi abbracciava fortemente ed io la rassicurai dicendole che saremmo stati di nuovo insieme. Baciavo i miei fratellini e la nonna che piangevano anche loro e poi me ne andai.

Tornai con il gruppo di ragazzi che già avevano preso un vantaggio su di me, già pronti a salire sul camion che ci doveva portare fuori dalla zona del conflitto. Eravamo centinaia, tutti senza documenti per non rischiare di essere uccisi per colpa di un cognome sbagliato, si uccideva anche per la propria appartenenza etnica che si notava dal cognome.

Una situazione molto rischiosa che io e centinaia di ragazzi abbiamo vissuto.

Come me, alcuni hanno avuto la fortuna di essere ospitati da amici o parenti, ma altri erano disperati. Errano in tutto il paese, in tutto il mondo alla ricerca di un tetto per la notte, di una casa per un pranzo o una cena: la colazione non era all’ordine del giorno!


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