Baboucar, Ousman, Yaya e Robert sono quattro richiedenti asilo , ognuno da un diverso Paese africano, ognuno con un vissuto diverso in Patria, una diversa conoscenza dell’italiano; tuttavia, sono quattro ragazzi uguali a chiunque altro nella loro ricerca di una vita “normale”. E cosa c’è di più normale di partire da Perugia per fare una gita di due giorni al mare?
Sono loro i protagonisti di “E Baboucar guidava la fila“, a fine maggio premiato con l’ambito European Union Prize for Literature 2019. È un libro breve, poco più di cento pagine da leggere in un weekend o tutte d’un fiato, che ci offre una prospettiva diversa dal solito sulla realtà della vita quotidiana dei richiedenti asilo in Italia. Ne abbiamo parlato con l’autore, il giornalista e scrittore (perugino doc) Giovanni Dozzini.
In “E Baboucar guidava la fila” hai raccontato un quadro “quotidiano” di persone che si ritrovano lontani da casa. I personaggi e le vicende del libro sono completamente frutto della tua fantasia o si basano sui racconti di persone di tua conoscenza?
La storia in sé è frutto della mia immaginazione, ma per tre protagonisti su quattro sono ispirati a persone che conosco bene, nel modo di essere, di parlare, negli atteggiamenti. La dinamica dei rapporti l’ho replicata da quello che ho visto. Quando uno scrittore scrive mette sempre un po’ della sua esperienza in quello che scrive. Ma poi gli ho fatto fare cose che probabilmente non hanno mai fatto: prendere un treno per andare a Falconara marittima, vedere una finale dei mondiali insieme, …
Tiro a indovinare il personaggio inventato: è forse la guida del gruppo, Baboucar?
No, sbagliato.
E allora Robert!
Esatto, è lui. Questa cosa da un lato mi diverte: anche se Robert è il personaggio che ho tratteggiato “per sottrazione” comunque ha credibilità, più di Baboucar con la sua presenza debordante. Ma allo stesso tempo come personaggio Robert mi è stato utile nell’economia della storia e nella rappresentazione della realtà: lui incarna il “grado zero”, di chi è appena arrivato e comincia a seguire un percorso di accoglienza. Mi serviva moltissimo per far vedere com’è la situazione di chi è appena arrivato in Italia. In una presentazione a Bari un ragazzo senegalese, ormai da qualche anno in Italia, mi ha detto che in qualche modo si è ritrovato in tutti i quattro personaggi, come se avesse rivisto i diversi livelli di integrazione in Italia che lui stesso ha vissuto, da subito dopo l’arrivo a quando aveva trovato una sua strada qui. Mi sembrava una cosa interessante.
Durante il primo incontro tra Ousman e i carabinieri, in spiaggia, mi è sembrato di vedere sia il cattivo che il buono del rapporto dialettico tra l’italiano e lo straniero: prima la distanza tra i due carabinieri e l’immigrato, data sia dalle diverse provenienze e dalla funzione rivestita dai militari, che poi si declina in una sorta di cameratismo quando si scopre che Ousman aveva fatto la scuola per diventare poliziotto. La domanda è: è un evento solo per introdurre le figure dei due carabinieri, importanti poi nel prosieguo della storia, o è anche un modo per far capire che nonostante il diverso vissuto le distanze possono essere colmate dalle esperienze comuni?
Quando si fanno domande così ad uno scrittore, lo si porta a ragionare ancora una volta sul libro. Il processo della scrittura è ovviamente consapevole, ma ci sono molte cose che semplicemente scrivi perché ti dicono “qualcosa”, di cui ti rendi conto solo in seguito, quando ne parli con altri. Molto più semplicemente, ti posso dire che quando sono andato a fare un sopralluogo alla spiaggia di Falconara ho visto due carabinieri, da cui ho preso spunto anche per l’aspetto fisico. E ho immaginato che se Ousman, il personaggio più fragile perché si era visto rifiutare la richiesta di asilo dalla commissione, quello con lo sguardo un po’ più smarrito di tutti, si fosse trovato lì, probabilmente i carabinieri lo avrebbero fermato, perché è nell’ordine delle cose. Anche nel dialogo ho pensato che potesse essere plausibile far emergere la storia di Ousman, o con essa quella della persona reale a cui mi sono ispirato per quel personaggio, che in Gambia “insegnava armi”. Un’aggiunta: questa persona, dopo aver ricevuto il diniego della Commissione, era sconcertato: “come è possibile che dopo tutto quello che ho passato non mi vogliono tenere in Italia? Domani vado in questura, perché voglio parlare con i poliziotti e spiegargli che sono uno di loro, se parlo con loro mi accoglieranno, mi aiuteranno, capiranno che è tutto assurdo”. C’era in lui questa attitudine a sentirsi parte di una categoria che andava oltre le lingue e le culture. E invece a me sembrava paradossale, perché non funziona così. Quindi in quella scena volevo caricare un po’ il paradosso di questi carabinieri che si ritrovano a parlare con qualcuno che dal nulla dice loro di essere della polizia. E questo ha a che fare con l’approccio di tutto il libro: raramente ci aspettiamo che queste persone siano altro, oltre che dei poveracci bisognosi di aiuto. Ma in realtà loro possono essere tutto, e il contrario di tutto: delinquenti, perdigiorno, o con ambizioni artistiche come Baboucar, che vuole girare un film sui matrimoni combinati, o istruttori della scuola di polizia. Sono uomini e donne come noi. Il loro passato, la loro storia, esistono e sono fondamentali, ma mai più del loro presente. Questo è anche un romanzo sulla loro condizione di “anti-reduci”: non vengono qui per essere trattati come reduci, ma vogliono andare al mare, corteggiare le ragazze, fare quello che facciamo tutti, avere una vita normale.

Qual è stato il motivo che ti ha spinto a scrivere questo tipo di libro?
Semplicemente un giorno mi sono affacciato alla finestra del posto dove lavoro, in una zona industriale fuori Perugia, e ho visto cinque ragazzi africani che camminavano in fila indiana con delle buste sottobraccio, in un giorno caldissimo e con il sole a picco. Mi è sembrata un’immagine incongrua e mi sono chiesto: “dove cavolo stanno andando?”. A quel punto mi sono messo al computer per rispondere a questa domanda. E la risposta è che andavano al mare.
Secondo te quanto c’è bisogno, nel clima generale di questo periodo, di un racconto come quello che hai scritto, per sensibilizzare sul fatto che parliamo di persone reali, non derelitti o fantasmi in giro per le nostre città?
C’è un enorme bisogno di racconti e rappresentazioni di questo tipo, per restituire la complessità della natura umana a tutti i livelli, e parlare di questi uomini e di queste donne che abbandonano la loro casa e fanno viaggi lunghissimi e rischiosissimi per cercare una vita migliore. Conosco il potenziale della letteratura, ma ne riconosco anche i limiti: purtroppo la letteratura non arriva dappertutto, anzi, si ferma molto spesso a cerchie ristrette. Nel caso del mio libro si ferma a cerchie abitate da gente che non ha troppo bisogno di essere ragguagliata sull’argomento. La marea di persone ostili nei confronti degli stranieri non credo si fermerà a leggere un libro come “Baboucar”. Da questo punto di vista sono un po’ scoraggiato. Ma quando vado in giro a presentare il libro sento forte la responsabilità di parlare di questi temi, soprattutto a ragazzi delle superiori e delle medie che si stanno formando e stanno costruendosi una coscienza come individui, e vengono da tutti i tipi di situazione. Nelle scuole trovi di tutto, gente che è d’accordo con te ed altri che non lo sono: puoi aiutarli a ragionare su questi temi, cercando di dare spunti di riflessione e ponendo domande, più che risposte. Penso che questo faccia bene anche a persone che si considerano “benevole” nei confronti dei migranti: il tic di essere un po’ paternalistici ce l’abbiamo anche noi che siamo dalla parte “giusta”, se mi passi il termine. Rispetto a questo tipo di lettori penso che possa avere un’utilità. Mi piacerebbe parlare di Baboucar e degli altri anche a gente che si fa abbindolare dalla retorica e dalla propaganda. Ma so che forse la letteratura non sarebbe lo strumento più adatto. Il racconto è fondamentale per raccontare il tema; ma serve trovare anche altro, nuove forme di comunicazione per contrastare una rappresentazione grossolana e propagandistica, ormai diffusa anche per colpa dei mezzi di informazione, che hanno alimentato questa retorica razzista.
A proposito delle scuole: essendo sempre più multiculturali e multietniche, con prime, seconde e a volte anche terze generazioni, quali sono le reazioni dei ragazzi alla presentazione del libro?
Bisognerebbe sempre distinguere, ma devo ammettere che le generazioni che sono ora a scuola fanno ben sperare: sono attenti, sensibili, sembra che capiscano al volo quello di cui sto parlando. Mentre gli adulti sono più pieni di sovrastrutture, più condizionati dall’esperienza, dagli ideali, da motivazioni ideologiche. I ragazzi di 13, 15, 16 anni si stanno ancora formando a livello di coscienza civile, sociale, politica, e cercano di capire qual è il loro posto nel mondo. Spesso e volentieri vanno dritti al punto, senza giri di parole o filtri: sembra che ci intendiamo meglio. se mantengono questo tipo di attitudine, penso che questi ragazzi potranno costruire una società migliore di quella che stiamo vivendo noi, o almeno voglio crederci. La mia percezione toccando con mano è che a scuola si possa fare tanto, e che possiamo essere ottimisti.
Grazie Giovanni per averci incontrato e aver risposto alle nostre domande.
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