Francesco Piobbichi, disegnatore sociale perugino Doc, è attivo da anni sul fronte dell’accoglienza. Dopo aver lavorato nei corridoi umanitari ed aver salvato vite sulla nave Proactiva Open Arms, ha realizzato due libri di disegni in cui racconta le storie migranti che ha incontrato lavorando sulla frontiera del Mediterraneo.
Dall’Umbria alla frontiera mediterranea. Come ci sei finito?
Ho iniziato a lavorare sulla frontiera partendo qualche anno fa da uno sciopero dove mi trovai a lavorare come attivista, a Nardò. Era uno sciopero contro i caporali fatto dai migranti. Penso sia stato il primo sciopero dopo decine di anni di pace sociale nelle campagne pugliesi. Io da lì ho iniziato a riflettere e cercare di capire come mai in Italia si sia prodotta una situazione di questo tipo, cioè una settorializzazione, una differenziazione visibile dei lavoratori migranti dal resto.
Quest’attività mi ha portato poi a lavorare al progetto Mediterranean Hope, un programma della Federazione delle chiese valdesi in Italia centrato sul tema dei migranti e richiedenti asilo partito circa 4 anni fa. Prima sono stato a Lampedusa, poi anche in Marocco e in Libano coi corridoi umanitari. Ho fatto anche una missione imbarcandomi sulla nave della Ong Proactiva Open Arms.
L’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) sostiene che da qualche tempo si sia sviluppata una vera e propria campagna d’odio nei confronti delle Ong che salvano le vite dei migranti in mare.
Viviamo in un mondo in cui i poveri sono sconfitti, in cui l’ingiustizia è la norma e si sono ribaltati significati delle cose. Per cui la solidarietà è diventata un crimine e salvare persone è diventata una cosa di cui vergognarsi. Se a morire in mare in tutti questi anni fossero stati bianchi occidentali probabilmente non lasceremmo morire tutte queste persone in mare.
Facendo questo lavoro io racconto quello che vedo e vivo e spesso sono anche oggetto di attacchi. Siamo arrivati al paradosso in cui da un lato, per la prima volta nella storia dell’Italia, il male assoluto, cioè il fatto che ci sia qualcuno che rivendica in maniera pubblica che delle persone muoiano in mare, hanno una certa visibilità. Stando in frontiera mi sono trovato più volte ad affrontare situazioni di questo tipo.
L’obiettivo sono le ong perché chi sta in quelle navi è il solo che può raccontare storie che altrimenti non si conoscerebbero. Evidentemente qualcuno vorrebbe che ciò che accade in Libia o nel mare non si sapesse.
Tra i tanti modi di comunicare quello che vedi e vivi, hai scelto il disegno. Come mai?
Ho iniziato a disegnare quasi per caso nelle notti insonni e calde dove lo scirocco toglie il fiato grazie a una scatola di colori sparsi sul tavolo. Così ho scoperto il tratto che rende visibili le emozioni che ho vissuto in questi anni di lavoro sulla frontiera del Mediterraneo.
È stata una necessità interiore a darmi in mano le matite, il dover liberarmi innanzitutto del senso di impotenza che mi attraversa mentre faccio questo lavoro che mi fa contare i morti.
Disegnare vuol dire entrare dentro se stessi, e una volta che riesci a illustrare quello che ti attraversa, quell’immagine diventa una chiave per aprire la porta di un racconto che attraversa le frontiere. Un racconto necessario di storie altrimenti consegnate all’oblio del mare.
I miei disegno non sono curati, sono in presa diretta e non potrebbe essere altrimenti. Nascono e muoiono in poche decine di minuti, mischiano colori vivi che danno speranza con la durezza delle cose che raccontano. Il colore è vorticoso, scarabocchiato, quasi a rompere la carta. Con i disegni racconto la lotta dei dannati della terra partendo dal terreno emozionale, in modo radicalmente diverso rispetto al modo in cui spesso si producono immagini dalla frontiera, quasi sempre fotografiche. Sono molto critico ad esempio rispetto a chi in frontiera arriva, fotografa e se ne va. La fotografia ha spesso a che fare con la spettacolarizzazione del dramma e del dolore che si incontra da quelle parti.
Il disegno è diverso, poiché fa sintesi tra ciò che si vede e ciò che si sente, attivando un meccanismo emozionale. Chi sta sul fronte della solidarietà deve saper parlare al cuore e alla testa come qualcuno che sta sulla strada e dice le cose come stanno, non da un pulpito.
In quello che fai c’è un forte legame con l’Umbria
Verissimo. Non potrei fare quello che faccio se non fossi umbro. La tradizione della narrazione contadina, anche si persino in Umbria ora si è un po’persa, è quella che ha accompagnato la mia generazione, che è quella cresciuta con le storie dei nonni davanti al camino. Le storie delle due guerre mondiali, dei partigiani e della Resistenza, di come è in qualche modo rinata l’Italia uscendo da periodi bui e situazioni difficilissime.
La narrazione che ho recuperato e a cui faccio riferimento con i miei disegni è esattamente quella, e mi è possibile farlo proprio perché sono nato e cresciuto in quella cultura contadina dell’Umbria profonda, quella molto legata alla sostanza e ai beni primari, con poca attenzione alla forma e ai beni voluttuari e consumistici. Un po’ quello di cui parlava anche Pasolini con la figura dei consumatori di pane. L’Umbria nella quale sono cresciuto, pasolinianamente, era una regione di consumatori di pane. E quel pane cerco di metterlo nelle storie che racconto.
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