Sabato 12 ottobre il Centro Internazionale di Accoglienza di via Bontempi ha ospitato la tappa perugina della serie di incontri che il Summit nazionale delle Diaspore sta tenendo per presentare in ruolo di organizzazioni ed associazioni locali, in particolar modo di quelle costituite da migranti, nella cooperazione internazionale. Una giornata di formazione, visto lo spazio dedicato ad illustrare i modi in cui queste associazioni possono ottenere finanziamenti per i progetti di cooperazione e partecipare al Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo, ma anche occasione per confrontarsi e definire di una nuova narrativa sulle migrazioni.
Della parte riguardante la cooperazione si sono occupati Tamat NGO, co-organizzatore della giornata, che ha fatto proprio della cooperazione internazionale il nucleo delle sue attività, e l’Associazione Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che ha illustrato la sua azione, la sua mission, e le linee guida per l’iscrizione delle associazioni che si interessano di cooperazione internazionale: queste non devono essere per forza ONG, ma possono essere fondazioni, imprese sociali, organizzazioni di migranti che vogliono operare nella cooperazione allo sviluppo. Il requisito fondamentale che le associazioni devono rispettare è l’essere in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. Anche i privati possono avere un ruolo, sebbene il cofinanziamento da parte dell’AICS sia diverso rispetto a quello concesso alle associazioni: se questi ultimi partecipano per un 10-20% al budget dei progetti approvati, i privati devono invece poter garantire un importo almeno pari a quello stanziati dell’AICS.
Al momento delle domande dal pubblico emergono spunti interessanti di riflessione. Per esempio, riguardo quale potrebbe essere il ruolo delle associazioni delle diaspore in ambito di cooperazione allo sviluppo. La risposta è semplice: l’obiettivo è “fare rete, condividere, dialogare con la politica a livello locale e a livello nazionale. L’obiettivo è sempre costruire insieme”, anche nell’ottica di partecipare a progetti che interessano i Paesi di provenienza delle diaspore, in modo da rendere più efficaci gli aiuti verso di essi. “Sinergia” è la parola chiave, come dimostra anche una statistica chiave: a detta della stessa Associazione, “al momento circa il 20% dei progetti seguiti e finanziati dall’AICS vedono il contributo di associazioni delle diaspore”. Un dato importante, considerando che tra questi non rientrano progetti di accoglienza.
Un aspetto che a volte si sorvola è che, attraverso i progetti nei Paesi di emigrazione, anche il mondo dell’associazionismo (incluse le associazioni di migranti) hanno voce in capitolo in politica estera italiana, di cui la cooperazione “è una parte qualificante”, e concretamente fanno politica, nel senso più puro del termine: “la politica non è una cosa relegata ai palazzi del potere, ma si fa giornalmente, già in casa quando si decide cosa mangiare, ma soprattutto quando si esce di casa, ci si incontra per un obiettivo comune e si parla con le autorità locali e nazionali”.
Tra gli interventi dal pubblico non mancano note polemiche, essendo presenti associazioni che fanno del lavoro sull’immigrazione la loro missione quotidiana, e che quindi hanno il polso della situazione nel Paese. Lamin, esponente di un’associazione di migranti di Gualdo Tadino, affronta temi che spesso aleggiano nell’aria in incontri come questo, ma non vengono sempre affrontati: “si parla di immigrazione senza far parlare gli stessi immigrati. E allora, qual è il ruolo delle associazioni della diaspora? E come può la situazione cambiare, se in Italia la legge non permette dei percorsi di integrazione?”
La risposta viene da Cleophas Adrien Dioma, coordinatore di progetto del Summit: “nella mia vita in Italia ho lavorato nei campi di pomodori, in fabbrica, e nei primi tre anni qui non parlavo l’italiano perché non potevo studiarlo. Tu stai parlando oggi con noi in italiano, perché sei andato a scuola per impararlo. Questo vuol dire che gli strumenti ci sono, ma che il problema, semmai, è capire come potenziarli. Ora lavoro con il Summit, e durante questa esperienza abbiamo capito che bisognava iniziare a ragionare diversamente, smettere di lamentarsi e fare rete: tocca a voi, alle associazioni e ai migranti stessi fare rete, avere un ruolo attivo senza aspettare che qualcuno vi dia la parola, ma guadagnarsela. Il Summit esiste per dare un impulso alla creazione di una rete, ma poi è lo stesso territorio che deve impegnarsi per dialogare”.
Nella seconda parte della giornata i rappresentanti dell’AICS e del Summit delle diaspore hanno fanno un passo indietro, lasciando che gli spettatori, divisi a seconda dell’area tematica di cui ci si occupa e a cui si è più interessati, diventassero partecipanti e protagonisti, in un principio di dialogo tra le varie realtà associative.
Noi di Umbria Integra abbiamo partecipato (ovviamente!) al gruppo che si sarebbe occupato di comunicazione, con l’esperta di migrazioni del Summit Tana Anglana a fare da moderatrice. Il presupposto dal quale partire per lo scambio di vedute si è basato sulla situazione attuale del comune sentire in Italia riguardo l’immigrazione, che come sappiamo tende a guardare al fenomeno in modo negativo, o quantomeno con preconcetti e pregiudizi, rendendo difficile anche per le associazioni di migranti e che si occupano di migrazione riuscire a muoversi e avere i risultati sperati dalle loro azioni. Bisogna riuscire a costruire un ambiente favorevole, descrivendo la realtà, comunicando la cooperazione e cambiare la narrazione sulle migrazioni. Ma questo è l’obiettivo, non il mezzo: e quindi, quali sono gli strumenti a disposizione? Come raggiungere lo scopo?
Questi gli interrogativi a cui abbiamo cercato di dare una risposta, il che ha preso buona parte del pomeriggio, stante la diversità di vedute e di sensibilità personali. Ed è stato un bene, visto che ci ha permesso di apprezzare come il punto di vista individuale metta a fuoco solo una parte del quadro generale, e fornisca risposte solo parziali alla questione sul tavolo.
C’è stato chi, dalla propria esperienza in comunicazione, ha puntato sulla necessità di presentare i migranti in maniera neutrale, superando il mal costume di identificare le persone in base a preconcette considerazioni stereotipiche (ad esempio, la presenza di africani nelle pubblicità solo per esaltarne una superiorità a livello fisico, e la scarsa rappresentazione della categoria in altri ambiti); chi si concentra sui messaggi dati dalla classe politica, identificando nella chiarezza della posizione “anti-immigrati” e nell’ambiguità di quella “pro-migranti” la ragione del successo della prima sulla seconda; chi considera centrale dare visibilità non solo a chi ha avuto la possibilità di integrarsi, ma anche a quanti devono essere “accompagnati” lungo questo complicato percorso; e anche chi, riportando il discorso a un livello più alto, invece ha ricondotto il problema al fatto che non tutti siano convinti dell’universalità del diritto a migrare, con le conseguenze che possiamo vedere ogni giorno.
Tutti i partecipanti, però, si sono ritrovati su un punto chiave: tornare a considerare i migranti come persone, e non attraverso le categorie burocratiche (clandestini, richiedenti asilo, titolari di permesso umanitario, …) in cui vengono collocati al momento dell’arrivo. Una ghettizzazione anche a livello lessicale, una trappola in cui molti finiscono per cadere.
Cerchiamo di capire il risultato finale di questo costruttivo scambio di idee, rispondendo a 4 domande fondamentali:
- COSA FAR COMPRENDERE? -> Che il mondo è cambiato, e che la situazione attuale impone ormai un superamento delle tradizionali logiche nazionali e sulle migrazioni: il “diritto a migrare”, sancito dall’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, deve essere riconosciuto ufficialmente come tale anche dai Governi nazionali.
- COSA BISOGNA RACCONTARE? -> Storie personali di migrazione, per dare un volto ed un nome a quanti arrivano in Europa e in Italia; i Paesi di origine, per far comprendere le ragioni che hanno portato i migranti a intraprendere il loro viaggio, e conoscere ciò che è alla base delle loro storie e delle specificità culturali che portano con sé; e storie positive di integrazione nel tessuto sociale locale, per sradicare l’idea che lo straniero resterà sempre un corpo estraneo nel Paese di arrivo. Le storie negative che riguardano i migranti (è irragionevole negare che esistano), devono essere esposte con l’oggettività della cronaca, senza che la nazionalità o il credo religioso del singolo vengano elevate a causa principale della condotta criminale: “fare di tutta l’erba un fascio” è il pericolo che renderebbe vani tutti gli sforzi per cambiare le cose.
- COME RACCONTARLO? -> Gli strumenti sono molti: si va da quelli più immediati, come lo slogan (che se ha avuto i suoi risultati per far passare una narrazione negativa, se ben calibrato può essere utile anche per lo scopo opposto) o l’ironia (che ancora più si presta a sottolineare le contraddizioni insite nelle posizioni “anti”, con in più un elemento di sicuro impatto come l’effetto comico), fino a quelli più strutturati come la Carta di Roma, il protocollo deontologico per una informazione corretta sull’immigrazione del 2011, o la Carta di Assisi, il “primo manifesto internazionale contro i muri mediatici” del 2019 (che può essere un’ottima base di partenza per le iniziative future delle associazioni impegnate in questo campo). Se gli strumenti deontologici ci sono, perché non iniziare ad utilizzarli seriamente?
- COME AGIRE? -> In Umbria è presente una nota realtà legata alla comunicazione, la Scuola di Giornalismo, un’istituzione che può essere importante in due modi: per insegnare alle nuove generazioni di giornalisti come comunicare professionalmente le migrazioni e la presenza di stranieri in Italia (seguendo anche le indicazioni delle Carte di Roma e di Assisi); e per formare stranieri interessati al mondo del giornalismo. Un apporto duplice, che porterebbe nuova linfa (e professionalità) al giornalismo in generale e a maggior ragione a quello interessato alle migrazioni.
Come dicevamo prima, è stato un lavoro complicato, ma che ci ha fatto capire come le realtà associative del territorio, nonostante la diversità di obiettivi e le rispettive specificità, remano tutte nella stessa direzione. Il prossimo passo? Riuscire a mettere in piedi una rete vera e propria, che metta in contatto le organizzazioni del territorio, per non disperdere gli sforzi di ognuno. È difficile, ma si può e si deve fare.
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